Allontanandomi dal pudore
Diceva il tizio - non ricordo quale - che non esistono valigie facili da chiudere. L’ultimo giorno del mio anno da studente erasmus capisco che il tizio la sapeva lunga. Devo consegnare le chiavi della mia stanza alle 10, ma è dalle 8 che sono seduto sui bagagli già sistemati, nella stanza già pulita, lavato, sbarbato e pronto come se il mio treno partisse a momenti invece che alle 21. L’ansia insonne m’ha tirato via dal letto in orario da alzabandiera e ora me ne sto qui come una statua.
Busso la porta di fronte alla mia e Aglaia mi apre con gli occhi cisposi. Le lascio i bagagli, chiudo in fretta la mia porta e scendo a riconsegnare le chiavi all’ufficio dello studentato. L’incombenza delle ultime questioni burocratiche dona al mio incedere rapidità ed efficienza meccaniche. Volo all’università, in biblioteca, in banca a consegnare documenti, restituire libri, chiudere conti. Ad ogni operazione effettuata il mio corpo perde di peso: la bici, che lascerò a Magali, sembra sbandare per l’instabilità.
“Credete davvero che la Germania sia il paradiso?!” inveisce un invasato a Marienplatz: ce l’ha con i lettori della “Bild”, specie di versione cartacea alemanna di “Studio Aperto”, colpevoli di assuefarsi alle idiozie del gossip invece di badare ad una democrazia secondo lui in pericolo. Ai paradisi non credo, ma questo posto m’ha cambiato nel profondo. Vorrei dirlo al predicatore, ma ho paura di una sua risposta. All’Englischer Garten m’attendono per l’ultima birra. Per tutto il pomeriggio scambio chiacchiere,
abbracci, indirizzi, risate. Ma in realtà non esisto. Sono lì, ma c’è solo il mio corpo alleggerito.
La mia testa è vuota, intrisa solo dei colori evanescenti del parco e delle voci degli amici miste a quelle delle anatre cui diamo briciole di Brezel. Tarek, Magdalena, Myrtha, Nikos, Katharina… Sono leggero anche quando saluto loro. Stergios, Aglaia e Christina mi accompagnano con l’auto alla stazione.
Giungiamo al binario carichi come emigranti e mi sorprendo a pensare che è strano non abbia pianto. È passato un anno ma non piango. Non mi sento il corpo, sono irreale, ma non mi viene da piangere. Aglaia, a nome del terzetto che mi ha accompagnato, mi porge un pacchetto: è un profumo. Io non ho mai usato profumi in vita mia. Io odio i profumi per uomini.
Piango. Mi giro di lato per nascondermi dai loro sguardi, umidi come i miei. Se oggi ve ne racconto senza pudore è perché l’ho usato tutto allora per nascondermi da loro.
Li abbraccio un’ultima volta e scappo sul treno.
Sistemo le mie valigie, zaini e buste di libri. Il controllore dice che devo spostarmi perché ha letto male il biglietto e la mia carrozza in realtà è un’altra. Indico verso l’alto: “Mi porto appresso un anno di vita. Se la roba me la sposta Lei, cambio volentieri.” Desiste desolato.
Partiamo. Preferisco non affacciarmi dal finestrino. Nell’alchimia di sensazioni che mi attraversano c’è anche la voglia di tornare a casa. Eppure, il treno mi sembra un cubicolo nero senza direzione.