04/04/2008   12:9 911

Spettacolari acrobazie e diatribe tra i vari banchi di Palazzo Mosti


Correva l’anno 1998 e si era giunti alla metà di febbraio, ma le polemiche sulle dimissioni di Roberto Prozzo, da assessore all’Urbanistica di Benevento della seconda giunta di Pasquale Viespoli, non s’erano ancora sopite. Dopo sei mesi di attesa, quindi da settembre, il primo cittadino sciolse la riserva e procedette alla nomina dell’architetto Pino Iadicicco, presidente dell’ordine professionale beneventano. Non nuova la scelta dell’alleatino di “pescare” tra i componenti dell’associazione in questione, fece lo stesso nel 1996 con la chiamata di Carmine Calzone all’identico posto in Giunta. Ma non fu questo elemento a rendere l’episodio sapido. Iadicicco, infatti, mai iscritto a nessun partito e generalmente accostabile all’area cattolica per la lunga militanza ai vertici degli scout dell’Agesci, lavorava all’epoca nello studio di progettazione di Carlo Camilleri, l’ingegnere recentemente assurto alle cronache per l’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere sull’Udeur. Già all’epoca, Camilleri condivideva pienamente la linea politica di Clemente Mastella, in quanto segretario amministrativo del Ccd (l’allora partito del ceppalonese), nonché fratello di Bruno, un anno e mezzo prima sconfitto da Viespoli nella corsa interna al centrodestra per raggiungere l’ambito traguardo di Palazzo Mosti. Le insinuazioni si sprecarono: parve a molti l’intento compensativo della scelta dei Viespoli nei confronti di un gruppo politico alleato (il Ccd) a Roma, ma da lui sempre osteggiato. Del resto, il sindaco ex missino aveva già provato a cooptare pezzi dell’area mastelliana, come dimostrò l’approccio non riuscito al consigliere Nazzareno Lanni, “stuzzicato” con la nomina all’Istruzione.
E invece, il fronte del Ccd accusò il colpo: altro che compensazione! Quando la nomina di Iadicicco doveva ancora essere ufficializzata, dalle colonne del Sannio Quotidiano Bruno Camilleri lanciò l’anatema: “A questo punto non credo ci siano più le condizioni perché l’architetto continui la collaborazione professionale con mio fratello”.
Sul “Quaderno” Lorenzo Preziosa, estensore dell’articolo a pagina 3, si domandò quale attinenza ci fosse tra “l’impegno di amministratore pubblico e l’espletamento della privata professionalità. O vige la logica del clan, per cui se qualcuno non è del partito della famiglia, in questo caso il Ccd, o non la asseconda politicamente, è meglio che si accomodi fuori? E non era, almeno, il caso che, se proprio da “padroni” ci si doveva esprimere, parlasse il fratello Carlo, visto che nello studio Iadicicco c’era lui e non Bruno?”. Sconsolata la riflessione conclusiva sulla vicenda, etichettata come “un brutto intreccio di politica, affari privati e familismo. Davvero in questa città non c’è mai limite al peggio”. Questo, dieci anni fa, si leggeva sul “Quaderno”.
E passiamo al taglio basso, dove troviamo un’altra notizia niente male. Qui, però, passiamo dalla saga familiare alla farsa. Nell’occhio del ciclone Ugo Del Sorbo, a quel tempo consigliere comunale. Questi aveva aderito a “Democrazia e legalità”, movimento fondato da Antonio Di Pietro, embrione della nascitura Italia dei Valori. L’estate precedente l’ex pm era stato eletto col sostegno del Pds a un seggio vacante del “rosso” Mugello (dopo i sei mesi da ministro dei Lavori Pubblici nel Prodi I), per poi iscriversi come indipendente al Gruppo Misto. Il primo esponente di rilievo ad aderire a “Democrazia e legalità” fu Giuseppe De Lorenzo (oggi mastelliano), benché entrato appena due mesi prima nel Pds, anche se un primo circolo era stato inaugurato da Nunzio Pacifico (oggi di nuovo con Di Pietro). E qui entra in scena Del Sorbo: entrato a Palazzo Mosti dopo l’elevazione al soglio assessoriale di Domenico Visco (Forza Italia), abbandonò il gruppo azzurro con la motivazione di essere sconcertato dall’involuzione di alcune vicende a carattere nazionale, su tutte quelle inerenti l’affaire Previti, l’avvocato di Berlusconi, poi parlamentare, carica da cui è stato fatto decadere per una sentenza di condanna passata in giudicato. E passò dal campo del Grande Accusato a quello del Grande Accusatore. Senza, però, far mancare l’appoggio alla Giunta Viespoli. Spettacolare l’acrobazia dialettica cui fece ricorso per motivare la quantomeno contraddittoria scelta: “La presenza di Di Pietro nell’Ulivo non implica l’assunzione da parte mia della stessa posizione”. Un punto di visto assolutamente logico, paragonabile per assurdo alla presenza di un accanito fiancheggiatore di Storace nelle fila della “Cosa Rossa” o di un intransigente antiabortista nei Radicali di Pannella e Bonino. Eppure, chissà, quella della doppia militanza potrebbe rappresentare una valida strategia per riorganizzare la tanto vagheggiata “concordia nazionale”. Staremo a vedere…
Vincenzo Del Core

^ torna in alto Stai leggendo un articolo di >