Tourismus macht frei...
La settimana scorsa mio fratello si è finalmente deciso a venirmi a trovare. L’accoglienza che gli riservo è delle migliori: piatti e birra bavaresi e un paio di serate in stile Erasmus. Ma, dopo i piaceri della tavola e i divertimenti notturni, tutt’altro tipo di destinazione ci attende: Dachau. Nella mia famiglia l’attenzione per tutto ciò che riguarda l’orrore nazista è sempre stata forte, sia per un’innata propensione alla tragedia, sia per l’interesse vivo verso la storia, intesa come destino dei singoli individui. Io e Giulio siamo quindi cresciuti - con conseguenze molteplici - assieme a libri, film e documentari riguardanti la Shoah. Consapevoli di come ciò non costituisca il benché minimo anestetico a quel che vedremo, ci decidiamo ad andare. Dachau fu il primo campo di concentramento della Germania di Hitler e costituì il modello secondo cui furono costruiti e gestiti tutti i lager. Per volere dell’Associazione Superstiti, il percorso di visita è fatto in modo tale da seguire il medesimo tragitto dei prigionieri. Ciò ci costringe a passare attraverso il cancello su cui campeggia a lettere d’acciaio il triste motto “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi), indirizzato con ironico sdegno ai detenuti, fin troppo consapevoli dell’irreale ipocrisia di un simile comando. Due ragazze stazionano al cancello: una in posa di fianco alla scritta, l’altra tre metri più dietro. Tentano di scattare una foto ricordo, ma il flusso di turisti le ostacola. Sembrano irritate dalla difficoltà di realizzazione del
souvenir. Superatele con discrezione, vediamo cose peggiori. Le camere a gas di Dachau furono usate raramente. Un senso di orrore le pervade comunque. La morte spaventa per la sua realtà, non per questioni numeriche. Anche qui, però, lo sgomento sottostà ai flash: un ragazzo inginocchiato in un angolo cerca la migliore prospettiva per fotografare i bocchettoni dai quali usciva il gas. Prova col flash, poi senza, cambia posizione, si allontana, esegue l’ultimo scatto e poi scompare. La scena si ripete identica dinanzi ai forni crematori, filmati in dettaglio da due turisti asiatici. Giulio mi guarda e dice: “Dovrebbe essere proibito…”. Sono tentato di dargli ragione, ma poi mi chiedo cosa sia da proibire e con quale autorità. Qual è il confine fra la memoria storica e l’intrattenimento? Dov’è che la testimonianza di un dolore indescrivibile si trasforma in un filmato di YouTube?
Luoghi come Dachau indicano il limite oltre cui la nostra umanità è persa. Un confine che dobbiamo saper riconoscere. È stato Primo Levi ad insegnarcelo: “Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo”. Ricordare il passato non significa però guardarlo come un mostro da circo e far della memoria una scatola vuota, un passatempo, un filmino delle vacanze. Così si cancellano sia ciò che la tragedia è stata realmente, sia gli insegnamenti che da essa ci giungono. Ma probabilmente scriverne, come sto facendo ora, non è molto diverso dallo scattare foto-ricordo.
Marcello Gisondi