INTERVISTA. Italia al bivio: l'analisi di Romano Prodi
Pubblichiamo - per gentile concessione de LaVoce.info - un estratto dall’intervista a Romano Prodi contenuta nel libro “L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento 1992 – 2022” (Franco Angeli), curato da Franco Amatori, Pietro Modiano e Edoardo Reviglio, e uscito il 29 aprile 2024.
Franco Amatori (FA) – Cosa pensi del giudizio di alcuni studiosi secondo il quale ai nostri policymakers interessava più la stabilità che lo sviluppo, come dimostra il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia?
Romano Prodi (RP) – È vero, ma questo in Europa è stato un problema di necessità storica. In realtà tra stabilità e sviluppo non c’è incompatibilità, anzi la stabilità è condizione necessaria per lo sviluppo e la stabilità è fondamentale, soprattutto in un contesto di collaborazione tra Stati e forze diverse. Più che di maggior interesse nei confronti della stabilità, si è trattato di mancanza di politica di sviluppo perché questa esige un livello di collaborazione all’interno dei Paesi e tra diversi Paesi molto più forte.
Le circostanze hanno reso la stabilità necessaria, lo sviluppo invece esige una politica attiva, sia a livello nazionale che europeo ed è assai complicato realizzare una politica attiva di sviluppo perché richiede una riorganizzazione dell’economia mondiale, associata a una politica di ricerca, di innovazione e coordinata con il mondo del lavoro. È una funzione estremamente più complessa da compiere in una società aperta come era, e come è, la società mondiale. Non si sono potute invertire le due priorità. È stato fatto quello che si poteva fare, con la solidarietà che si aveva allora. E meno male che c’è stato questo richiamo alla stabilità. Purtroppo la congiuntura internazionale ha impedito di porre l’accento sullo sviluppo.
Mi sembra difficile però legare in modo diretto questo tema al problema del divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro. Perché questa operazione rispondeva ad altri obiettivi: alla necessità di avere più disciplina e più comportamenti coscienti nei confronti del debito pubblico. Quindi era quasi un’emergenza. Evidentemente molti degli obiettivi che la separazione tra Banca d’Italia e Tesoro si proponeva non sono poi stati ottenuti: l’”indisciplina” è continuata infatti anche in tempi successivi.
Nel libro di Modiano e Onado, Illusioni perdute, è spiegato bene come lo stimolo che poteva scaturire dal divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, non si sia poi concretizzato. Ma la ricerca della stabilità non era la ragione del divorzio e, ripeto, non possiamo definire la stabilità come un bene minore.
FA – Qualcuno afferma che abbiamo scambiato l’Iri con l’euro. Era proprio necessario? Non ce la potevamo prendere con più calma? L’Iri era davvero quel disastro, come appariva agli osservatori esterni? Secondo l’allora senatore Mucchetti, una volta liquidato l’Iri, allo Stato restò un “gruzzoletto” di 20 miliardi di euro. Non male!
RP – Scambiato l’Iri con l’euro? Io sono stato presidente dell’Iri e ho “lavorato molto” per l’euro, ma è la prima volta che sento dire questa cosa. Il problema delle privatizzazioni non aveva niente a che fare con la moneta unica. Era piuttosto un problema di politica europea generale per rendere la concorrenza uguale: secondo me si è esagerato, ma allora era una dottrina. Quindi l’euro è assolutamente estraneo a questo.
Invece credo che abbia ragione Mucchetti nel dire che l’Iri era molto meglio di quello che si pensava e si scriveva allora. Ho faticato tanto e per tanti anni, ma ho lasciato l’Istituto con una sua solidità.
Mucchetti la quantifica in 20 miliardi di euro e più o meno corrisponde, ma l’Iri aveva soprattutto un suo valore proprio, frutto di anni e anni di ristrutturazione. Era però inevitabile che si fosse obbligati a passare a una privatizzazione richiesta dall’esterno. Io sono stato prima il “riorganizzatore” dell’Iri nella fase del 1982-1989 e poi ho dovuto essere il “privatizzatore”, nel 1992-1993, ma sotto ordine del governo e in conseguenza di una politica europea precisa e voluta.
Ma il problema non è stato certo questo! Il problema è stato il comportamento del capitalismo italiano quando ha preso in eredità quella che era la forza dell’Iri. Pensiamo alla vicenda esemplare del settore telefonico e al suo livello elevatissimo di capacità concorrenziale, di affermazione internazionale al momento in cui è stata fatta la privatizzazione: era un patrimonio reale, esistente, forte. Dovendo “ovviamente” andare verso una privatizzazione, possibilmente di carattere nazionale (non potevamo certo dare tutto in mano straniera), il patrimonio è andato a imprenditori che poi non hanno messo in atto politiche di sviluppo, ma hanno semplicemente lucrato sull’eredità ricevuta. Alla domanda se questo era un cammino obbligato la risposta è sì, la decisione era obbligata anche se i comportamenti dei nuovi “padroni” sono stati al di sotto di ogni aspettativa e fuori da ogni controllo. Si poteva fare diversamente?
Nel momento della privatizzazione si è fatto quanto si poteva fare con le regole e con i comportamenti che dovevamo tenere. Si poteva fare meglio? Credo proprio di sì, ma non è dipeso da chi ha lasciato l’eredità, ma dagli eredi che hanno messo in atto un’attività speculativa frammentando le imprese, lucrando sugli asset che potevano essere venduti. Questa è stata la sorte dell’Iri, non per colpa dell’Iri ma dei suoi eredi.
FA – Le privatizzazioni hanno rappresentato una grandiosa occasione mancata o il bilancio, a distanza di anni, è in qualche misura positivo?
RP – Le privatizzazioni erano indispensabili, ma sono finite male. Non è che ci fossero molte alternative. Non si poteva vendere tutto agli stranieri; politicamente sarebbe stato impossibile. Ho in mente i “meravigliosi” passaggi del tentativo di vendere l’Alfa Romeo alla Volkswagen che non la prendeva in considerazione.
Poi finalmente ci fu un contatto con la Ford. Ricordo il primo rapporto con Alex Trotman, presidente della Ford europea, al quale chiesi come mai volessero comprare l’Alfa Romeo e lui mi rispose: “Ai nostri clienti non basta l’ovale, we need a round badge, vogliamo uno stemma rotondo”. Nel corso del nostro colloquio, che lui volle riservatissimo e che si svolse a Londra, emerse che un’impresa grande come la Ford era troppo concentrata nella gamma di vetture a basso costo e che il nome dell’Alfa avrebbe contribuito grandemente a sollevare l’immagine di tutto il gruppo. Questo basta per far capire quale fosse il prestigio dell’Alfa Romeo. A trattativa conclusa però lo avvisai che, quando lo avremmo annunciato, in Italia tutti, sotto la spinta della Fiat, avrebbero reagito per bloccarla.
Trotman mi disse che, qualsiasi fosse l’offerta Fiat, non avrebbero variato di un solo dollaro il loro piano.
Così è andata e così la Ford ha fatto: io avrei preferito vendere alla Ford perché sarebbe nata una necessaria e positiva concorrenza in Italia. Dobbiamo invece constatare che, poi, l’Alfa ha perso continuamente quote di mercato e gli obiettivi proclamati non sono mai stati raggiunti.
Edoardo Reviglio (ER) – A me sembra che quello che è rimasto poi in mano dello Stato, le poche grandi imprese che abbiamo l’Eni, l’Enel, la Terna, la Snam, la Fincantieri, le Poste italiane, siano signore imprese. Queste hanno funzionato e funzionano bene.
RP – Sono le uniche grandi imprese che abbiamo. Le altre non è che funzionino male, sono morte.
ER – La Fiat e la Pirelli sono andate all’estero. Le nostre invece vanno bene.
RP – È quello che sostengo: il problema non era la privatizzazione, il problema sono le mani in cui sono finite le imprese. La privatizzazione era obbligatoria per un vincolo politico, non solo per ordine di governo, ma anche di opinione pubblica. Quelle che son rimaste “per inerzia”, funzionano.
ER – Funzionano anche perché hanno un modello che è quello del controllo pubblico del 30% mentre il resto sta in mano a tanti investitori che hanno una certa autonomia dal potere politico.
RP – Sono le cose “alla francese”. Nel senso che hanno un nocciolo duro pubblico, però rimangono autonome. In Francia lo Stato garantisce due cose: la continuità e l’interesse nazionale ultimo nei cambiamenti di proprietà. Niente di più, non incide sulla gestione.
ER – Quindi questo sistema nato quasi per caso, con la Cassa depositi e prestiti che diventa di nuovo una holding, in realtà sta funzionando, lascia autonomia a queste grandi imprese. Inoltre, ha alcuni dossier molto complessi da affrontare, quello sulla rete unica, quello sulle autostrade, quello sull’Ilva. Lì il governo deve intervenire, e fare delle scelte.
RP – Lì si verifica un altro guaio. I dissidi interni al governo: il governo dovrebbe guidare, ma se consideriamo la questione della rete unica, la linea del governo qual è stata e quale è? La Cassa depositi e prestiti non è chiamata a stabilire la linea, la esegue.
FA – Dall’osservatorio della Presidenza della Commissione europea, da Bruxelles, che giudizio davi della classe dirigente italiana?
RP – Il giudizio individuale era spesso buono. Il giudizio di efficacia invece no. Ma questo è il problema italiano: la “continua discontinuità”, la continua incertezza. Questo impedisce che l’azione sia efficace.
Racconto sempre che quando vinsi le elezioni andai in visita dal cancelliere tedesco Kohl. Al momento dei saluti mi abbracciò e mi disse: “È stato davvero un bell’incontro Romano, ma chi viene la prossima volta?”. E nei cinque anni di Bruxelles, con quanti ministri diversi ho avuto a che fare io stesso? E questo attribuiva all’Italia un peso molto minore rispetto agli altri Paesi. La continuità a Bruxelles è importante, perché è come un club e alle riunioni del Consiglio si parla con chi si conosce, con chi frequenta con continuità il club.
FA – Nel saggio scritto per questo volume, Pierluigi Ciocca afferma che i 25 anni a cavallo dei due secoli sono “i peggiori della storia economica d’Italia”. Sei d’accordo o la tua valutazione è meno pessimistica?
RP – È un giudizio severo che non fa giustizia di tanti aspetti. Come tutti i giudizi sintetici, prende in considerazione un dato solo, la crescita, e non valuta tutti gli altri aspetti di trasformazione della società e del contesto. Quindi è necessario approfondirlo. D’altra parte, noi siamo un Paese particolare. L’Italia è il Paese della fragilità. Restano molti aspetti da spiegare e approfondire.
PM (Pietro Modiano) – La classe dirigente di questo Paese al momento della svolta non è riuscita a recuperare un senso di marcia e in fondo sembra che vi abbia rinunciato. Ho in mente i tedeschi, che escono dal dopoguerra e imboccano la strada dell’economia sociale di mercato che da noi la Sinistra non ha mai amato e condiviso, e la grande impresa neanche. Questo tentativo delle classi dirigenti e anche degli intellettuali italiani di mettere insieme i valori del capitalismo, della concorrenza e dell’equilibrio dei conti e dei rapporti fra i gruppi sociali, noi in fondo non l’abbiamo mai perseguito. E questo è il più grande rimprovero che faccio a tutti quanti appartenevano e appartengono alla Sinistra progressista. Non ci siamo riusciti. Abbiamo subito l’ondata liberista e non siamo riusciti a dare un senso di marcia alla nostra società, come in fondo i tedeschi sono riusciti a fare.
RP – Non posso che essere d’accordo su questo. Io sono stato il primo, da economista, a parlare di “modello renano”. Sapevamo benissimo come funzionava la Germania, però l’Italia era più frammentata. D’altra parte adesso che sono costretti a governi di coalizione, hanno problemi ancora più seri dei nostri. Hanno cercato di prevedere tutto, ma ugualmente non riescono a governare con la fermezza di un tempo, data l’eterogeneità della coalizione al governo.
ER – Un altro tema importante oggi riguarda la novità della Bideneconomics, lo straordinario stimolo economico-industriale negli Stato uniti: in molti pensano che questo sia l’inizio di un cambio di paradigma rispetto a quello degli ultimi 30-40 anni, che vede di nuovo un ruolo dello Stato molto più ampio.
RP – Questo è l’aiuto diretto dello Stato, che è tanto ed è importante. Ma si accompagna con altri fattori, per esempio al costo dell’energia che è molto più basso negli Stati Uniti e viene giocato strumentalmente. E poi bisogna considerare il ruolo delle grandi imprese a rete, che costituisce una trazione impressionante. Rispetto a questi cambiamenti a livello globale, la mia preoccupazione maggiore per l’Italia è che noi non abbiamo attirato e non stiamo attirando nessuno dei grandi protagonisti dell’economia contemporanea.
È una mia convinzione profonda che questo sia un danno enorme per la nostra economia presente e futura. Non una fabbrica di batterie, non una di automobili elettriche, non una grande fabbrica di chips. Il giorno in cui l’Italia sarà capace di attrarre uno di questi grandi investimenti, usciremo dal purgatorio. Le occasioni le abbiamo avute, ma non siamo riusciti perché non abbiamo alle spalle un sistema.
L'intervista è stata già pubblicata da lavoce.info ed è tratta dal libro L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento 1992 – 2022, a cura di Franco Amatori, Pietro Modiano e Edoardo Reviglio. Editore Franco Angeli, 2024.
ilQuaderno.it ringrazia www.lavoce.info e Franco Angeli per la gentile cortesia
SCHEDA
Romano Prodi, nato il 9 agosto 1939 a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, è una figura di spicco nella politica italiana e europea. Laureatosi in Giurisprudenza all'Università di Bologna, ha poi intrapreso una brillante carriera accademica, diventando professore di Economia Politica.
La sua ascesa nel mondo della politica inizia negli anni '80, quando viene nominato presidente dell'IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), un ruolo di grande rilievo nell'economia italiana. In questa veste, Prodi si distingue per la sua capacità manageriale e per aver contribuito alla modernizzazione del settore industriale italiano.
Successivamente, nel 1996, viene eletto Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, guidando un governo di coalizione di centro-sinistra. Durante il suo mandato, Prodi si impegna in riforme importanti, tra cui l'ingresso dell'Italia nell'Euro, la legge elettorale e la riforma del mercato del lavoro. Il suo secondo mandato come primo ministro, nel 2006, è stato più breve e segnato da maggiori difficoltà politiche.
Ma è a livello europeo che Prodi lascia un'impronta indelebile. Nel 1999, diventa Presidente della Commissione Europea, il più alto incarico esecutivo dell'Unione Europea. Durante il suo mandato, si concentra sulla promozione dell'integrazione europea, sostenendo l'allargamento dell'UE verso Est e promuovendo politiche economiche e sociali per favorire la crescita e la coesione.
La sua leadership è stata caratterizzata da una forte spinta verso l'approfondimento dell'integrazione europea e il rafforzamento delle istituzioni comunitarie.
Nonostante le sue esperienze nazionali e internazionali, Prodi è sempre rimasto un professore nel cuore, continuando a essere coinvolto nel mondo accademico e a contribuire al dibattito pubblico con la sua vasta conoscenza e competenza in materia economica e politica.