Riti Settennali, nel sangue dei battenti riconoscere le ferite quotidiane - FOTO
Ieri a Guardia Sanframondi la processione generale che conclude la prima parte dei Riti ha visto la partecipazione dei battenti. Ora per 15 giorni sarà possibile 'visitare' la Vergine poi la cerimonia di chiusura della lastra.
Il giorno più atteso dei Riti Settennali di Penitenza, quello della processione generale e dei battenti che per ore hanno attraversato Guardia Sanframondi colpendosi il petto, fino a sanguinare, in onore di Santa Maria Assunta in cielo. Un rito antichissimo di espiazione collettiva che vede protagonista l’intero centro sannita, nessuno escluso. Un rito che è divenuto globale e che è stato raccontato in tutto dal mondo dagli oltre 250 giornalisti accreditati. Si stima invece in circa 90mila le presenze, arrivati tra i vicoli del centro storico da diverse parti d’Italia e non solo. C’è anche chi è giunto nel cuore della notte per tentare di occupare la posizione migliore, ovviamente nei pressi della Fontana del Popolo, luogo in cui avviene l’incontro tra i battenti e l’Assunta. Circa 1000 i battenti ed i disciplinanti, tantissime le donne, che riunitisi nella cappella del ‘Sangue sparso’ all’interno del Santuario al grido ‘Fratelli, in nome di Maria, con forza e coraggio, battetevi”, in ginocchio e camminando a ritroso si sono poi uniti alla processione dei Rioni (Croce, Portella, Fontanella e Piazza) ponendosi, in fila per due e rispondendo all’unisono ‘ora pro nobis’ alle litanie impartite da anziane donne, alle spalle dell’ultimo mistero del Rione Croce: San Girolamo penitente.
Ad aprire la processione ci sono dunque i campanelli che leggenda vuole, furono trovati al fianco dell’effige della Vergine. Dopo l’incontro, i battenti cominciano poi ad allontanarsi per poi ricomparire, questa volta vestiti con abiti comuni, pronti a seguire l’ultima parte della processione e a prendere sulle spalle la Statua dell’Assunta fino al Santuario.
A Guardia non è accaduto solo questo, anche se in molti avevano raggiunto il Sannio per guardare loro: i battenti. Infatti, per la prima volta, ad assistere all’inizio dell’atto penitenziale c’era anche il vescovo della diocesi di Cerreto Sannita – Telese e Sant’Agata de’Goti mons. Battaglia. Una presenza non “anomala” ma incoraggiante, di sostegno “morale” ad un atto di fede che travalica anche la religiosità. Paolo VI in Paenitemini lo avrebbe definito un atto intimo e personale, un atto d’amore e di partecipazione ai patimenti di Cristo.
Il climax a Guardia non conosce apogeo, è un continuo di emozioni. Basta vedere le lacrime degli anziani, la riverenza che tutti osservano, compresi i figuranti, al colpo di mortaretto che annuncia l’uscita della statua dal Santuario e la potenza dei colpi di “spugna” e “disciplina” che si fanno sempre più incalzanti al momento dell’incontro con la Vergine.
Quello che si vive a Guardia è un percorso sensoriale e visivo, oltre che spirituale. Certamente a catalizzare l’attenzione sono le ferite ed il rosso del sangue, l’odore dello stesso misto al vino che serve a ‘sanificare’ le lacerazioni, ma probabilmente il messaggio che si vuole lanciare è ben diverso e riguarda il valore che si da al corpo e alla vita. I Riti sono un luogo del cuore, forse nascosto tra le tante zone d’ombra che ci portiamo dietro. Segnano la riscoperta di un mondo che forse la “secolarizzazione” ha cancellato.
Guardia nei giorni dei Riti si trasforma in un set dove anche chi arriva non è semplice spettatore. C’è chi ti ripete che probabilmente un giorno questo “dolore” potrebbe essere utile a riconoscere e riconoscersi. La sintesi di quello che avviene a Guardia la offre mons. Battaglia che indicando le ferite, dice: “devono diventare, con la nostra risposta, la nostra presenza,
segni di speranza. Ma occorre rimboccarsi le maniche prima di tutto per riconoscere quali sono le piaghe che segnano la nostra terra, la vita di tanti. L’inquietudine diventa esigenza di organizzare la speranza, il cammino della vera pace”.
Un significato profondo quello che il presule da al rito penitenziale che diventa dunque base solida di denuncia: “Le ferite del nostro tempo, del nostro territorio, della nostra società, non sono nascoste a Dio, e sono queste oggi sacramento, luogo della riconciliazione, banchetto dell'eucaristia. Sono queste il corpo e il sangue di Cristo. Sono queste il tabernacolo della speranza”. Guarda mons. Battaglia al ‘sangue’ versato dei giovani disoccupati: “La mancanza di lavoro colpisce i giovani costretti ad emigrare, costretti nella gabbia del presente, incapaci di pensare al futuro. L'assenza di prospettive, di progettualità, butta anche noi nello sconforto. La fragilità e il senso di fallimento entra nei legami e li avvelena. Mette in crisi la società alla sua base, dal suo interno: le famiglie sono le prime a soffrirne... Da luoghi a ferite”. Al sangue versato da chi soffre: “La nostra terra non è lontana anzi è parte della terra dei fuochi. Conseguenza di un male che ci sovrasta, contro cui non pensiamo di poter combattere, tantomeno vincere. Male che ha la sua efficacia sulla salute, dei più piccoli e indifesi...male che ha la sua efficacia sull'incremento dei tumori”. Al sangue versato dal territorio: “in questa nostra terra, le ferite delle montagne deturpate, diventate roghi, di cui il crepitio sale a Dio, terra bruciata dall'abuso e dall'arbitrarietà di chi dovrebbe proteggerla. La natura che ci circonda è corpo vivo delle nostre relazioni. I roghi parlano dei roghi accesi nel nostro vivere in relazione, nella nostra società, nella nostra quotidianità. Roghi di risentimenti, di vendette, di risposta all'ingiustizia con la difesa di sé, con ogni mezzo. La nostra sete di conversione se non attraversa la realtà di questi roghi non può diventare volto di misericordia. Dobbiamo protestare con chi ci ammorba l'acqua, con chi ci avvelena il vino (…) Dobbiamo protestare contro coloro che violentano la natura, che deturpano i paesaggi, che speculano sulle bellezze della terra”.
Quel battersi, quel versare il sangue, si trasforma oggi in una scintilla, in un atto di resistenza e di resilienza davanti al mondo. In una sorgente capace di dissetare l’assetata voglia di risposte. In uno squarcio dal quale è possibile guardare il mondo con una prospettiva diversa. È un esercizio di “memoria” che invita tutti a non essere indifferenti dinanzi alle ferite della vita. Se i Riti di Guardia sono allo stesso tempo un fenomeno religioso ma anche “sociale, culturale e collettivo” e dunque antropologico e dunque “folclore", lo devono anche a questo voler riscoprire il senso comunitario. Al non saper morire in silenzio davanti alle tragedie e alle miserie umane che desertificano il cuore. Un rito che si trasforma, che assume dunque un significato diverso dal chiedere perdono e grazia.
Ora, per 15 giorni la statua della Vergine rimarrà esposta giorno e notte per permettere ai fedeli e ai guardiesi, senza sosta, di pregare e rinnovare il proprio affidamento a Maria fino alla chiusura della lastra che sarà riaperta nuovamente tra sette anni.
Michele Palmieri
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