28/06/2010   8:38 2349

Pomigliano siamo noi. I beneventani sappiano che i diritti sul lavoro ora sono a rischio per tutti


L'editoriale di Carlo Panella - Dal Quaderno Settimanale n. 582 - Scriviamo prima che a Pomigliano d’Arco gli operai votino nel referendum. Fiat pretende un ampio consenso al piano di riorganizzazione del lavoro in fabbrica, pena la chiusura della stessa e localizzazione nell’Est Europa. I lavoratori devono rinunciare a diritti sanciti dai Contratti collettivi di lavoro (per malattie, pausa mensa, turni…) e dalla Costituzione come il diritto di sciopero. Le violazioni delle nuove norme saranno valutate e punite da Fiat, via via, fino al licenziamento.

I sindacati di categoria (i metalmeccanici) hanno aderito al disposto dell’ad Sergio Marchionne, tranne Fiom Cgil. Questa ha comunque invitato iscritti e contrari al Piano ad andare a votare lo stesso, per evitare future ritorsioni.

A tanto siamo. Quanta amarezza in queste righe! Cominciai a far politica frequentando la Quarta ginnasiale, allora s’aspirava a crescere in fretta. Leggevo “il Manifesto”, al primo anno di vita come quotidiano. Riunioni, iniziative, a scuola e fuori sguardi truci, provocazioni coi neofascisti del Fronte della Gioventù. Nella provincia remota non giungevano solo gli echi della “rivoluzione” cominciata negli Anni Sessanta.

Per la sinistra, il movimento operaio e studentesco il riferimento erano proprio i metalmeccanici che nel settembre di quell’anno, il 1972, crearono la FLM, unendo in un soggetto Fiom, Fim Cisl e Uilm Uil. Le lotte del 1968-1969 avevano posto le basi per la conquista di diritti nei luoghi di produzione. In parte, furono formalmente trasferiti nella legge detta Statuto dei Lavoratori nel 1970, ma vennero fatti vivere e attuati poi da quelle continue mobilitazioni, costose in termini di soldi persi per gli scioperi, ritorsioni subite dai più esposti, tacendo le gravi e fisiche conseguenze patite da tanti promotori e partecipanti.

Ma si tenne duro e si arrivò alla straordinaria manifestazione dei metalmeccanici del 9 febbraio 1973 a Piazza San Giovanni a Roma: 250mila persone, giunte da tutta Italia. Mai visto niente di simile prima. Con loro: edili, chimici, tessili, braccianti, ferrovieri e dipendenti pubblici, oltre a migliaia di giovani e studenti.

Boicottata dalla, pur meno importante di oggi, informazione radiotelevisiva, fu una prova di forza e di compattezza decisiva per la stipula del successivo contratto nazionale, nel successivo aprile, firmato per la prima volta dai tre segretari generali della Federazione Lavoratori Metalmeccanici, icone dell’epoca, Bruno Trentin, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto. Un contratto-mito: per la prima volta previde l’inquadramento unico per impiegati e operai e le tanto agognate e sudate 150 ore.

Cos’erano? Lo Statuto del 1970 aveva previsto per tutti i lavoratori-studenti il diritto “a turni che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami”, evitando “l’obbligo a prestazioni di lavoro straordinario o durante i riposi settimanali. I lavoratori studenti… hanno diritto a fruire di permessi giornalieri retribuiti”. Ma fu solo dopo la firma di quel contratto, nel 1973 che si potette fruire delle 150 triennali per formarsi, diplomarsi e laurearsi. Diritti estesi, poi, negli anni a quasi tutti i contratti nazionali.

Ricordo con rabbia. Non per nostalgia, per necessità. Perché sono tanti coloro che quella fase per età, sotto i cinquanta, non l’hanno potuta vivere. La regolamentazione del lavoro in fabbrica in Italia ha spesso preceduto quella negli altri comparti. Deve preoccupare per ciò tutti la spaccatura, l’isolamento della Fiom a difesa della storia (sopra abbozzata), di un sindacato unito che portò progresso e libertà per tutti. “Magistra vitae!

La società inclusiva regola, media l’inevitabile conflitto tra capitale e lavoro per attutire, tendenzialmente livellando, le differenze economiche, così agevolando la coesistenza sociale. Il capitalismo sfrenato, invece, ci ha portato a questa crisi, dopo aver preteso e ottenuto deregulation e briglie sciolte. I posti di lavoro si sono persi sempre di più, né si rendono oggi più sicuri riportando l’oppressione in fabbrica e sui luoghi di lavoro, risuscitando i padroni delle ferriere.

Sarà un male per tutti, se a Pomigliano, d’ora in poi, non potranno cibarsi prima della fine del turno, perdendo la sosta di 30 minuti. Né potranno più – anche fuori dall’orario di lavoro - studiare e organizzarsi uno straccio di vita rubata da straordinari imprevedibili, turni notturni…

Fiat ricatta, non contrae più: o vi piegate o chiudiamo. E’ nella scia dei padroni dei paesi del terzo e quarto mondo, e dei nostri di 50 anni fa.

La fabbrica vivrà o meno ovviamente per altre ragioni, se saprà essere competitiva. Nel caso contrario, andrà male solo ai dipendenti, i manager non pagheranno dazio, ricchi come sono.

Quel che è certo è che da subito s’infligge un grave colpo alla dignità di tutti i lavoratori cosiddetti “garantiti” d’ora in poi posti alla pari dei tanti “precari” che questa condizione di ricatto da anni patiscono.

E l’impoverimento generale proseguirà. Non c’è alcun prima e dopo Marchionne, nella storia. La paura può fare accettare le catene, la disperazione prima o poi le infrange. Fiat crede d’imporre la pax romana sul lavoro, ma sta seminando la guerra.


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