Benevento -

 13/07/2007   2:9 1747

Nicola Piovani non delude, nonostante l’infelice location

Benevento -

Perché abbiano deciso di relegare Nicola Piovani nella piazza antistante l’Arco di Traiano, resterà il mistero organizzativo della terza serata del Festival Internazionale di Benevento. Non già perché il monumento del 117 d.C. non fosse adatto a fare da sfondo alla sua musica.

Quanto perché la musica medesima va difficilmente a braccetto col rumore. Col rombo delle auto transitanti lungo via del Pomerio e viale dei Rettori e via San Pasquale (nonostante un parziale blocco di Vigili urbani). Con l’andirivieni dei passanti provenienti da via Manciotti, diretti a via III Settembre o semplicemente desiderosi di raggiunger via Traiano. Con i saluti a voce alta, gli scettici “Oh sentimm’ ‘a chist”, i dissacratori “Uagliù, facimmic’ ‘n’imposta ‘e pane. Gli squilli dei telefoni, il rumore dei tacchi, il traccheggiar di sempre.

 
 
Solo un compositore acuto e al tempo stesso umile, avrebbe accettato di suonare in quelle condizioni. Di non ribellarsi alla pochezza della città. Di andar via sorridendo, salutando e ringraziando il pubblico che ha avuto la pazienza di ascoltarlo, il piacere di applaudirlo. Ma tollerando anche chi, senza pazienza e senza piacere, ha offeso anche la buona educazione.
 
Nicola Piovani lo ha fatto. E benché non abbia dedicato alla città una sola parola, ha fatto parlare la sua musica. Le note del Poeta delle Ceneri, gli accordi della Notte di San Lorenzo. Il ritmo del Pianino delle meraviglie, il brano a tratti vicino agli impulsi del Charleston che il musicista concede anche come bis, al pubblico che lo acclama al termine dell’esibizione.
 
Piovani suona come sa. A tratti è deciso, irruente. I gravi si susseguono impetuosi proprio nella Notte di San Lorenzo, quando il frequente ricorso al pedale sembra far vibrare le note anche più del dovuto, quasi a coprire volutamente il frastuono d’intorno. Mentre la melodia ritorna padrona, soave, ne La stanza del figlio, quando il quartetto che lo accompagna diventa completo, interviene il clarinetto, irrompe il violoncello, sul palco anche contrabbasso e batteria.
 
Poi l’artista indugia su Caro Diario e se ne va lungo il suo repertorio, lasciando spazio alla fisarmonica di Cristian Marini in Pinocchio, regalando un bel duetto col clarinetto di Marina Cesari in Buongiorno principessa, lasciando il campo al contrabbasso di Gianluca Pallocca nel Tango della cimice, cedendo ai richiami struggenti di Fiorile, quando è il violoncello di Pasquale Filastò a farla da padrone.
 
Proprio il violoncellista che a tratti ghermisce anche la chitarra, offre la prestazione più convincente. Insieme a lui, è il contrabbassista a fare la differenza. Meno convincente la prova dei fiati: il clarinetto non è sempre pulito e il suono del sax soprano esce a volte tremulo, strozzato. La Cesari cede pure a una interpretazione a tratti troppo enfatica del Volo di Icaro.
 
Il pubblico si lascia andare al fragore quando, a metà dell’esibizione, il compositore intona le note di La vita è bella che inframmezza con Grand Hotel Foxtrot. Ma l’interpretazione forse migliore la regala Il sonatore Jones, il brano scritto con Frabrizio De Andrè, la cui voce sembra anche echeggiare mentre il piano dialoga col sax: “E poi la gente lo sa/ e la gente lo sa che sai suonare/ suonare ti tocca/ per tutta la vita/ e ti piace lasciarti ascoltare...”.
 
Al termine, solita ma sincera standing ovation. Del pubblico che ha ascoltato, ovviamente. Gli altri continuano ad andare e venire come credono. Ma lui, Piovani, pur facendoci caso, sembra non curarsene e cantare in mente il De Andrè del Suonatore: “Finì con i campi alle ortiche/ finì con un flauto spezzato/ e un ridere rauco/ e ricordi tanti/e nemmeno un rimpianto”.
M.I.
 
 
Nota a margine
In prima fila, le sedie lasciate vuote presumibilmente per le autorità, ricordano tristemente l’Italietta festivaliera, accentuata dai toni gentili ma perentori con cui le hostess, non per propria colpa, impediscono a tutti, anche alla stampa, di occupare i posti vuoti. Restano così più di una decina di posti vuoti.

All’assessore comunale alla Cultura Raffaele Del Vecchio che lascia il concerto alle 23.50, a meno di un’ora dall’inizio. Al consigliere comunale Luigi Trusio che arriva alle 23.35 ma, salvo una pausa giubbotto, lo segue fino al suo termine. Al curatore artistico della rassegna Colori sonori, Gennaro Del Piano. Al regista Michelangelo Fetto. O al bimbo che a un certo punto, stanco, occupa una delle sedie vuote.

Una delle hostess, a mezzanotte e un quarto, quando realizza di avermi impedito di occupare un posto che è rimasto vuoto, tenta di rimediare offrendomi la possibilità di accomodarmi. La proposta arriva fuori tempo massimo, a pochi minuti dalla fine e comunque durante la splendida esecuzione del Suonatore Jones. Sicché oltre a irritarmi mi disturba. E mi lascia in bocca quel senso di pressappochismo che nemmeno il bel concerto della terza serata del Festival riesce a togliermi di dosso.
M.I.

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