25/11/2006   17:13 2029

I fatti d’Ungheria nel ’56 e chi non ha voluto vedere


Dal quattro al dieci novembre, circa, dell’anno 1956, la rivolta ungherese fu repressa dal fuoco amico (si direbbe oggi) dei carri armati russi. I “fatti ungheresi”, così sono passati alla storia, erano stati preceduti da quelli berlinesi del 1953, dove la rivolta sulla “Stalin Alle” fu soffocata nel sangue; e da quelli della primavera-estate del 1956, in Polonia, dove gli scioperanti furono presi a cannonate dai compagni-fratelli. E fu proprio un corteo popolare, il 23 ottobre, organizzato dagli studenti, di solidarietà con gli operai in rivolta di Poznan (Polonia) che, degenerando in uno scontro armato tra manifestanti e polizia, diede avvio a una sollevazione, poi, incontrollabile da parte del governo.
Eppure, il ventesimo congresso del Pcus (febbraio 1956) dove Nikita Kruscev aveva denunciato i crimini di Josif Stalin e il relativo culto della personalità, ritenuto causa di tutti gli errori, lasciava intendere che in Russia qualcosa si stesse muovendo in direzione diversa dal passato. Invece, gli accordi di Yalta tenevano ancora fermamente diviso il mondo in sfere di influenza per cui la Russia, con la “complicità” delle maggiori potenze (impegnate a risolvere la crisi del canale di Suez), poté inviare le proprie truppe a stroncare quasi sul nascere un movimento popolare reclamante democrazia e migliori condizioni di vita per l’Ungheria.
Il cinquantenario della rivolta ungherese, in Italia, ha rappresentato l’occasione per la sinistra comunista di fare i conti con la sua storia e di rettificare il giudizio (tranne quelli di Armando Cossutta e Marco Rizzo) troppo semplicistico e di comodo che allora venne dato. Ma bisogna dire che opporsi a quella che fu la vulgata del comunismo italiano (difesa del socialismo rispetto a forze reazionarie che volevano istituire il capitalismo in Ungheria), era davvero difficile se un personaggio della statura intellettuale e morale di Giuseppe Di Vittorio, segretario nazionale della Cgil, fu costretto a smentire (l’imposizione fu di Palmiro Togliatti), in un comizio sindacale a Livorno, l’appoggio che il sindacato aveva espresso agli insorti magiari: “L’intervento sovietico contraddice i principi che costantemente rivendichiamo nei rapporti internazionali e viola il principio dell’autonomia degli stati socialisti”. Togliatti, segretario del Pci, conosciuto come “il Migliore”, difende la versione che l’Urss dà dell’accaduto o, addirittura, come ha sostenuto Enzo Bettiza nel suo ultimo libro “1956-Budapest:i giorni della rivoluzione”, Togliatti, con Mao Tse Tung e Josip Tito, avrebbe avuto un ruolo decisivo nell’imporre la soluzione forte nei confronti della sollevazione popolare ungherese. In verità, la tesi sostenuta da Bettiza non è peregrina, anzi, personalmente la condivido perché non bisogna dimenticare chi era Togliatti, il ruolo che aveva avuto all’interno del movimento comunista internazionale e il prestigio di cui aveva goduto e godeva ancora. Nonostante Pietro Nenni, il manifesto dei 101 e la condanna da parte di tutti gli altri partiti, il Pci difese fino all’ultimo le posizioni espresse dal comitato centrale russo. Amara la citazione di Bertold Brecht: “Il popolo non è d’accordo con il comitato centrale. Bisogna nominare un altro popolo”. Eppure, c’era stato già chi, da tempo, aveva inteso la vera natura del comunismo russo e l’aveva anche analizzata e raccontata, basti ricordare George Orwell e “La fattoria degli animali” oppure Arthur Koestler e il suo straordinario “Buio a Mezzogiorno”.
E in Italia? Davvero nessuno aveva capito o sapeva che la realtà russa era molto diversa da quella che veniva osannata nei comizi di piazza o da ciò che veniva fatto credere alla classe operaia del mondo occidentale? Io credo che il gruppo dirigente del Pci conoscesse perfettamente ogni cosa. Allora perché alimentare il mito della patria socialista che aveva soppresso l’alienazione borghese, quando invece era l’uomo ad essere soppresso anche fisicamente? Se così è stato, allora, bisogna dire che il comunismo è stato un grande inganno per milioni di persone che hanno creduto nel “sol dell’avvenir” e che hanno dato la vita per difendere ideali che restano sempre saldi nell’animo umano ma che, certamente, non appartenevano al comunismo o per lo meno al comunismo sovietico.
Migliaia furono i morti della ribellione ungherese e centinaia di migliaia quelli che lasciarono l’Ungheria, circa 240 furono processati ed impiccati per aver partecipato alla rivoluzione di cui circa il 60% era sotto i trentacinque anni e il 70% era di origine operaia. Lo stesso Imre Nagy, capo del governo legittimo, venne processato e impiccato con l’assenso di tutti i partiti comunisti fratelli ad eccezione di Wladyslaw Gomulka, segretario del partito comunista polacco che, mostrando molto coraggio, si astenne. Bisognava attendere ancora oltre trenta anni perché il grande Moloch dai piedi di cristallo si frantumasse sotto i colpi di un processo di globalizzazione inarrestabile che ha spazzato sogni, illusioni di intere generazioni.
Beniamino Iasiello






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