Fake news. Se la disinformazione scaccia il sapere
Più giornali e tv perdono il loro ruolo di approfondimento e verifica, più diventa forte il rischio di creare un divario tra élite e popolo. Non tanto su valori e fini, quanto in termini di informazione e di visione sui mezzi per raggiungere quei fini.
Tre casi emblematici di disinformazione
Dagli anni Novanta, la comunità scientifica ha raggiunto un consenso unanime sul ruolo preponderante delle attività umane nel riscaldamento globale. Tuttavia, i media (soprattutto negli Stati Uniti) hanno continuato a presentare il tema delle cause del riscaldamento globale come una questione controversa. Per esempio, uno studio del 2004 mostrava come, nei principali quotidiani statunitensi, il 52,6 per cento degli articoli sul riscaldamento globale destinasse lo stesso spazio alla visione scientifica tradizionale e a quella “negazionista”. In altre parole, l’equilibrio (balance) si è tradotto in un pregiudizio (bias): l’equilibrio nella presentazione dei diversi punti di vista ha creato, di fatto, una distorsione informativa.
Nel nostro paese una simile dicotomia tra rappresentatività e rappresentazione si è osservata su altre questioni poco o per nulla controverse nel dibattito scientifico, che tuttavia polarizzano le opinioni politiche con evidenti conseguenze elettorali e sulle politiche: i vaccini e il “sovranismo economico”.
Nonostante la scienza abbia chiarito definitivamente l’efficacia e la necessità dei vaccini, gli immunologi sono spesso costretti dai format televisivi a confrontarsi “alla pari” con esperti improvvisati che attribuiscono ai vaccini fantasiosi effetti collaterali. Così, agli occhi del pubblico, opinioni prive di qualsiasi fondamento scientifico finiscono per assumere la stessa dignità dei risultati della ricerca medica.
Allo stesso modo, mentre la maggior parte degli economisti italiani ritiene che allo stato attuale un’uscita dall’euro avrebbe conseguenze nefaste, i media hanno dato spazio ai pochi esperti “no-euro” in maniera sproporzionata rispetto al loro numero e, molto spesso, rispetto al loro curriculum accademico. Al punto che vengono presentati come professori
di economia anche sedicenti esperti che non hanno mai avuto alcuna posizione di ruolo nell’università.
Il ruolo dei media
Vari motivi spingono i media a sovra-rappresentare ipotetiche controversie su questioni in realtà già chiarite dalla ricerca scientifica. Ciò può essere dovuto all’agenda politica di alcuni giornalisti o testate che, per motivi ideologici, o per altri legati alla conquista di una data “fetta di mercato”, selezionano gli esperti in maniera strategica. Un’altra ragione può essere dovuta al fatto che dibattiti con un acceso contraddittorio sono più entertaining intriganti e pertanto più graditi all’audience.
Allo stesso tempo, vi può essere un incentivo dei giornalisti a voler apparire neutrali, inducendoli a dare voce a punti di vista opposti, pur consapevoli della loro diversa fondatezza. Infine, in mancanza di uno specifico background, vi può anche essere una difficoltà oggettiva ad analizzare e discernere tesi tecnicamente complesse da parte dei giornalisti.
Qualunque sia la ragione alla base del divario tra consenso scientifico e rappresentazione mediatica, vi è il concreto pericolo che, in un’epoca in cui i “nuovi media” forniscono informazioni non mediate e inclini alla diffusione di fake-news, i media tradizionali stiano perdendo il loro vantaggio competitivo. Ovvero, la capacità (e volontà) di verificare, filtrare e validare le informazioni fornite ai loro consumatori. Rinunciando a questo ruolo, i media tradizionali finiscono anch’essi per aiutare le istanze di quelle forze politiche che sfidano le fonti ufficiali della conoscenza, col risultato di consolidare il consenso dei movimenti populisti. Come sottolineato da Tom Nichols “si va affermando una specie di legge di Gresham intellettuale: laddove in passato la regola era “la moneta cattiva scaccia quella buona”, ora viviamo in un’epoca in cui la disinformazione scaccia il sapere”.
Il risultato finale rischia di essere quindi quello di creare un divario tra “élite e popolo”, non tanto in termini di valori e di fini, quanto in termini di informazione e di visione sui mezzi per raggiungere tali fini.
Francesco Sobbrio - professore associato di economia politica alla LUISS “G. Carli” - tratto da lavoce.info, per gentile concessione
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